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L'epoca degli influencer è davvero finita?

Qualcosa sta cambiando nella pianificazione pubblicitaria online delle aziende, complici l'esplosione di TikTok e e delle sue logiche nuove, alcuni casi mediatici e un cambiamento di strategie.



L’influencer economy, percepita quasi come un effetto secondario della rivoluzione digitale, è il fenomeno che ha sconvolto lo stato della società negli ultimi vent’anni, con la creazione di identità individuali e collettive dal nulla e la loro monetizzazione, l’invenzione di nuove carriere e un approccio al lavoro completamente diverso, più amatoriale e meno istituzionale.


Ha risemantizzato la definizione di popolarità, intrattenimento e autenticità: le piattaforme social hanno permesso a chiunque di accumulare follower e fan, e gli influencer sono riusciti a raggiungere milioni di persone a un costo decisamente inferiore rispetto a una vecchia campagna pubblicitaria.


Per un attimo sembrava realizzarsi il sogno di un’imprenditoria digitale democratica e meritocratica: d’altronde gli influencer vendevano sé stessi e il loro stile di vita, percepito più autentico perché orizzontale e diretto. Parrebbe quasi inverosimile che tale rivoluzione sia passata dai profili Instagram di quelle che prima erano fashion blogger e beauty vlogger.


Fa effetto rivedere per esempio il vecchio profilo Flickr di Chiara Ferragni, aperto prima ancora di The Blonde Salad: si discostava totalmente da chi postava paesaggi e tramonti, pubblicava una sorta di diario fotografico in cui esibiva il viso da Barbie, i ciondoli Tiffany, le sciarpone con i teschi, le borse Balenciaga forse comprate su eBay. Nessuno aveva il numero di mi piace e commenti che aveva lei. Nessuno aveva neanche il numero di hater che aveva lei: ma proprio la polarizzazione era la chiave del successo online. L’importante era mantenere gli hater fuori dalla propria community, farli passare per invidiosi e misogini; la community invece veniva coccolata, stabilendo un rapporto di fiducia reciproca con un patto di fede: tu mi dirai come vestirmi, cosa mangiare, che esercizi di ginnastica fare, dove andare in vacanza; ci renderai partecipi della tua vita, dalle storie d’amore ai figli e noi ti daremo la massima fiducia, anche in presenza dell’hashtag #adv.


La colpa è delle stories

Così con l’ascesa di Instagram e l’introduzione delle stories, la vita umana è diventata la sua rappresentazione sistematica online, seguendo le vecchie regole del mondo dello spettacolo; all’etica si è sostituita l’ambizione; l’unico senso della vita: la fama. Una parte del pubblico perdeva fiducia in qualsiasi tipo di istituzione novecentesca e la riposizionava proprio sugli influencer, mentre un’altra parte insistentemente pensava: perché questi qui hanno così successo?


Gli influencer, dal canto loro, nella seconda metà degli anni ’10 si erano trasformarti in “imprenditori digitali”: nel 2015 Cristina Fogazzi ha debuttato con una linea di prodotti skincare per viso e corpo; nel 2017 Clio Zammatteo ha lanciato la sua prima collezione di make-up e Chiara Ferragni ha inaugurato il suo primo negozio fisico a Milano.


Ma la verità è che sono sempre stati entità mutaforma, costretti ad adattarsi repentinamente ai cambi di algoritmo e ai rovesciamenti di scenario; eppure tra il 2018 e il 2020 si pensavano ormai saldamente in cima alla piramide della popolarità, capaci di veicolare con un colpo d’ali non solo prodotti ma anche alti ideali e beneficenze ai bisognosi.


Il matrimonio dei Ferragnez aveva generato sui social “più valore” del royal wedding vero di Harry e Meghan, secondo KPI discutibili che attribuivano arbitrariamente valori monetari all’engagement sui social; ma l’importante era impressionare le aziende che a quel punto elargivano agli influencer fiumi di soldi veri e accettavano addirittura di accavallare il loro brand a quello dell’influencer stesso.


L’apripista è stata di nuovo Chiara Ferragni con l’operazione Acqua Evian: il costo della bottiglietta d’acqua ferragnizzata triplica, online ci si indigna ma comunque la stampa specializzata parla di successo: l’operazione aumenta il desiderio di quel prodotto e quindi fa crescere la reputazione del brand. A inizio 2020 il giro d’affari in Italia intorno all’influencer economy vale più di 200 milioni di euro.


L'arrivo della pandemia


E poi arriva la pandemia. Soprattutto, esplode un nuovo social che vuole essere chiamato “piattaforma d’intrattenimento”: TikTok, che riesce a inglobare dentro di sé le caratteristiche di Instagram e YouTube, con un algoritmo “comunista” (o meglio: democratico) che rimette al centro il contenuto, dando a tutti l’opportunità di provarci.


Si torna a parlare di content creation, con i vlogger di YouTube come figure di riferimento, che raccontavano della loro vita e dei loro interessi, ma si lanciavano anche in performance: cantavano, suonavano, recitavano scene comiche, facevano scherzi diventati nel tempo sempre più elaborati ed estremi, ed è quello che li faceva comparire nei suggeriti di YouTube. TikTok riprende questa dinamica e l’accelera, l’estetica si fa meno patinata e i creator vengono veramente dal basso, come dimostra l’ascesa di Khaby Lame.


Soprattutto, i creator devono dimostrare di avere delle idee e di metterle in pratica.


Khaby Lame diventa in questo senso il volto perfetto del cambio di marcia, riprende la gestualità del cinema muto e iniziando a fare video reaction ad altri video già virali su TikTok: a giugno 2022, il suo numero di follower supera quello di Charli D’Amelio, campionessa di balletti insieme alla sorella, ma figura non proprio di rottura rispetto alle influencer di Instagram. L’influencer economy torna prepotentemente a essere content economy: gli influencer che postavano foto in cui comparivano prodotti e un po’ defilato il solito hashtag #adv fanno il loro tempo. Non si tratta più di fare “contenuti spontanei”, apparentemente autentici; i content creator creano dei nuovi linguaggi, uno stile riconoscibile, e con quello parlano alle nuove community, più giovani e sempre meno disposte a essere influenzate.


Il boom del de-influencing


Su TikTok compaiono figure che si chiamano “L’influencer onesta” e “L’influencer povera”; le nuove influencer fanno de-influencing, cioè testano prodotti che dicono di comprare di tasca loro, rincorrendo un’autenticità nel frattempo perduta. Gli utenti online adesso vogliono essere intrattenuti, hanno capito che la loro attenzione ha un valore e pretendono in cambio qualcosa in più: più performance o più autenticità, appunto. Nel 2023, gli Influencer che operano soprattutto su Instagram si ritrovano improvvisamente in recessione dopo annate di vacche grasse; l’ingresso in scena di TikTok e dei content creator ha svalutato il loro valore commerciale.

Chiara Ferragni si fa un po’ la portavoce della vecchia guardia, la cui fase discendente ancora non è così evidente agli occhi dell’opinione pubblica. Va a Sanremo e si lancia in improbabili spot a Instagram (stranamente a Sanremo 2023 nessuno nominerà mai TikTok, se non in palchi laterali), veicolando messaggi che pretendono di essere femministi ma sono soprattutto autoreferenziali. Indossa un vestito con i commenti degli hater ma il pubblico generalista questa volta non accetta l’invito a compatirla, e non basta neanche la donazione a un’associazione a risollevare le sue sorti reputazionali.

È da dicembre 2022 che riecheggia, infatti, tra un social e l’altro la “questione pandoro”, che diventa la keyword da tenere sotto controllo, o possibilmente cancellare. Il 2023 è anche l’anno degli sfoghi online: gli influencer con la reputazione a picco pubblicano video in cui piangono, parlano della loro salute mentale compromessa dal ritmo frenetico richiesto dai social, dalle difficoltà sempre maggiori di mantenersi in hype. Clio Make-up col volto rigato dalle lacrime dice: “Adesso è pieno di squali pronti a mangiarti”. I brand improvvisamente si allontanano dagli influencer come fossero radioattivi: chiedono maggiore trasparenza, si interrogano su quanto effettivamente “convertano”, pretendono dati dettagliati sulle community. Il numero dei follower esibito in cima ai propri account non è più garanzia di contratti con le aziende.


Le aziende aprono gli occhi


Non basta più l’esposizione del sé, bisogna dimostrare cosa si sa fare. Le aziende nel 2024 sono tornate ad avere come principali ambassador attori, atleti, popstar capaci certamente di entrare in contatto con i loro fan anche online; usano ancora all’interno del loro marketing mix gli influencer (a patto che siano trasparenti e professionalmente impeccabili) e i content creator, preferendo però intrecciare collaborazioni più a lungo termine ed entrando più in profondità nelle loro strategie di comunicazione, portando avanti contenuti sponsorizzati ma raccontati con linguaggi nuovi e creativi.


Agli influencer viene contestato tutto, soprattutto l’uso spregiudicato dei loro figli per farne del content, oltre che la poca trasparenza anche in ambiti che ne richiederebbero molta, soprattutto quelli medico-scientifici.


Eppure bisogna dar loro atto che sono stati forieri di una rivoluzione sociale; dal saggio L’industria degli influencer di Emily Hund (Einaudi): “Lo sviluppo dell’industria degli influencer si è basato sul desiderio di sicurezza e autonomia degli individui - relativo alla loro situazione finanziaria, alla loro creatività e al loro tempo - che è stato avvertito in modo particolare di fronte alla destabilizzazione professionale e alla maggiore insicurezza economica degli anni Duemila”.


E ancora: “Nonostante le narrazioni più diffuse sull’industria degli influencer affermino il contrario, generalmente le persone coinvolte non vi partecipano in quanto figlie narcisiste dell’era dei social media.


Lo fanno perché ciò appare come una solida opportunità di soddisfazione professionale in un mondo che spesso appare impazzito”.


Insomma, ecco gli influencer: da ignoti dietro uno schermo allo zenit della popolarità online, e poi di nuovo a terra, scherniti, additati come individui senza vergogna, incapaci di trovarsi il proverbiale lavoro vero. Forse è stato solo un modo maldestro di provare ad hackerare il sistema (il tardo-capitalismo, la società dell’immagine, l’Occidente). E alla fine non ci sono riusciti.


(Fonte: Wired)


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